La biopsia del linfonodo ingrossato, e cioè il prelievo di tessuto dal linfonodo che verrà successivamente analizzato al microscopio, è l'esame fondamentale per arrivare a una diagnosi precisa di linfoma e alla corretta identificazione del sottotipo. Secondo l’ultima classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) esistono oltre 80 sottotipi diversi di linfoma. Diagnosticare quello corretto è di fondamentale importanza in quanto da questo dipendono la scelta della strategia terapeutica e la prognosi.
Il secondo fattore che guida la scelta terapeutica è lo stadio della malattia. La stadiazione è lo studio dell’estensione della malattia ossia la precisa individuazione delle regioni del corpo interessate dal linfoma. Il metodo di stadiazione maggiormente utilizzato nei linfomi si basa sulla revisione di Lugano del sistema di Ann Arbor, che distingue quattro diversi stadi di malattia in base al numero delle sedi coinvolte e alla loro localizzazione:
Inoltre, in caso di presenza di una singola massa nodale particolarmente grande, allo stadio si aggiunge il termine “Bulky”. Gli esami e le procedure che vengono normalmente eseguiti per poter definire correttamente lo stadio sono: anamnesi ed esame obiettivo, esame clinico completo con valutazione delle stazioni linfonodali superficiali, TAC (tomografia assiale computerizzata), PET (tomografia a emissione di positroni), e aspirato midollare o biopsia osteomidollare. In alcuni casi specifici possono inoltre essere richiesti esami aggiuntivi come: valutazione otorinolaringoiatrica, TAC o RMN cerebrale, scintigrafia scheletrica, ecografia testicolare, studio radiologico e/o endoscopico del tratto gastroenterico, esame citologico chimico-fisico del liquido cefalo-rachidiano.
Agli esami eseguiti per la stadiazione della malattia, sono associate delle ulteriori indagini utili a definire gli indici prognostici e a fornire una migliore valutazione complessiva del paziente, come descritto nell’ultimo articolo pubblicato sul nostro sito (https://www.linfovita.it/component/k2/item/471-fattori-e-indici-prognostici-nei-linfomi-cosa-sono-e-a-cosa-servono.html).
Sulla base di tutte le informazioni raccolte, il medico formula una proposta terapeutica. Gli strumenti terapeutici standard per il trattamento dei linfomi sono la chemio-immunoterapia, la radioterapia e, in alcuni casi, il trapianto di midollo osseo. Gli stessi esami eseguiti per la stadiazione vengono generalmente ripetuti al termine della terapia per valutare la risposta al trattamento, che fornisce un’idea di quanto questo sia stato efficace nel contrastare la malattia. Sulla base di specifici criteri di risposta validati a livello internazionale, questa può essere definita come risposta completa, risposta parziale, malattia stabile oppure progressione. Successivamente ha inizio il periodo di follow-up, che consiste in controlli periodici la cui cadenza e le cui modalità variano in base all’istologia, allo stadio inziale e alla risposta al trattamento. Tali controlli hanno lo scopo di monitorare il decorso clinico, rilevando in maniera tempestiva una eventuale ripresa di malattia, una nuova patologia correlata alla precedente o effetti dannosi dovuti al trattamento.
Per saperne di più puoi consultare gli opuscoli informativi disponibili sul nostro.
Fonte: Linee guida AIOM 2018 Linfomi (https://www.aiom.it/wp-content/uploads/2018/11/2018_LG_AIOM_Linfomi.pdf)
La scelta terapeutica nei linfomi è guidata principalmente dal sottotipo specifico di linfoma diagnosticato e dallo stadio della malattia, ossia la sua estensione. All’esame istologico e agli esami per la stadiazione (quali TAC, PET e biopsia osteomidollare), sono inoltre associati degli esami aggiuntivi per la valutazione dei fattori prognostici. I fattori prognostici (dal greco pro-gnosis = conoscere prima) sono degli elementi che possono influenzare la prognosi del paziente, e risultano quindi di supporto nell’indirizzare la scelta terapeutica.
I principali fattori prognostici per il linfoma sono l’età, il Performance Status (cioè le condizioni cliniche alla diagnosi), la presenza di sintomi sistemici, i livelli sierici di LDH, lo stadio della malattia, la presenza di sedi extranodali, il numero di sedi linfonodali coinvolte ed altri fattori specifici per tipo di linfoma.
La combinazione di diversi fattori prognostici è utilizzata per calcolare gli indici prognostici, che hanno lo scopo di identificare la popolazione di pazienti a più alto rischio di insuccesso con i trattamenti standard. Tale approccio è quindi fondamentale per determinare la strategia terapeutica più appropriata sulla base del rischio individuale del paziente (basso, intermedio o alto). Indipendentemente dal tipo di indice prognostico, per ciascun fattore di rischio che lo compone presente nel paziente viene assegnato un punto; in base alla somma dei punti è possibile riconoscere la classe di rischio per ogni soggetto.
Nel tempo sono stati sviluppati diversi indici prognostici specifici per istologia. Ad esempio, per i linfomi aggressivi il più utilizzato è stato l’International Prognostic Index (IPI), che si basa sulla valutazione di 5 parametri sfavorevoli: età maggiore di 60 anni, malattia in stadio avanzato (III o IV), Performance Status ≥ 2, LDH sierico elevato, due o più sedi extranodali coinvolte. Per i linfomi follicolari l’indice maggiormente in uso è stato il Follicular Lymphoma International Prognostic Index (FLIPI), che consiste anch’esso nella combinazione di 5 fattori di rischio: età maggiore di 60 anni, più di 4 sedi linfonodali coinvolte, LDH sierico elevato, livelli di emoglobina < 12 g/dL, malattia in stadio avanzato (III o IV). E così via per le altre tipologie di linfoma.
La ricerca svolge un ruolo chiave anche in questo settore, in quanto si interroga costantemente su quali siano gli indici prognostici più accurati e di maggiore rilevanza clinica. Gli indici prognostici sono quindi in continua evoluzione, in quanto vanno di pari passo con i progressi della ricerca scientifica (migliore comprensione della biologia dei linfomi, avvento di nuove terapie).
CAREGIVER: UNA PAROLA CHE RACCHIUDE UN GRANDE SIGNIFICATO
Una diagnosi di linfoma compromette innanzitutto la vita di chi la riceve, ma indirettamente colpisce l’intero nucleo familiare. Oggi approfondiremo la figura del CAREGIVER, termine inglese ormai entrato in uso comune per indicare “chi si prende cura”. Si distinguono due tipologie di caregiver: formale, che svolge la propria attività sotto forma di lavoro retribuito, e familiare o informale, su cui ci soffermeremo di seguito. L’Istituto Superiore di Sanità definisce caregiver familiari “tutte quelle persone che in maniera gratuita e continuativa assistono e si prendono cura di un loro familiare non autosufficiente perché malato, disabile o anziano”. Essere caregiver familiare non è quindi una scelta, ma una necessità derivante dal legame nei confronti della persona malata. L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) ha condotto un’indagine dalla quale è emerso che in Italia, nel 2018, i caregiver familiari tra i 18 e i 64 anni erano più di 2.8 milioni, la maggior parte di essi rappresentato da donne di età compresa tra i 45 e i 64 anni.
Il carico fisico a cui il caregiver familiare è esposto è spesso gravoso. Le sue attività possono infatti comprendere il provvedere all’igiene personale dell’assistito e alla preparazione e somministrazione dei pasti e delle cure mediche, gestire le visite mediche e le faccende burocratiche, curare l’abitazione dell’assistito, fornire assistenza 24 ore su 24. Ne consegue che il caregiver familiare non gode di periodi di riposo, vacanza o malattia, con effetti rilevanti sulla gestione delle normali attività quotidiane. Inoltre, assistere una persona cara e vederla soffrire comporta un carico emotivo e psicologico di per sé considerevole, aggravato ulteriormente dalle difficoltà che il caregiver familiare si trova ad affrontare e dalle responsabilità di cui si fa carico.
Oltre al significato letterale quindi, la parola caregiver racchiude molto altro: affetto, attenzione e dedizione ma anche fatica, sacrificio, e sofferenza. In considerazione di tutto ciò, la figura del caregiver familiare necessita di maggiori tutele e attenzioni.
Linfovita si sforza di dare il proprio contributo a sostegno del malato ed anche dei caregiver familiari, per alleggerire il loro carico mediante occasioni di svago e condivisione. Inoltre, per dare risalto all’importanza dei caregiver, nei prossimi articoli vi racconteremo le storie di alcuni di loro.
La giornata mondiale contro il cancro è un’iniziativa nata il 4 febbraio 2000, promossa dalla Union for International Cancer Control (UICC) e sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Questa giornata è l’occasione per promuovere la conoscenza del cancro e riflettere sulle azioni che ognuno di noi può mettere in atto per ridurne il rischio di insorgenza.
L’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) e l’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM) hanno stimato 390.700 nuovi casi di cancro nell’anno 2022 in Italia: 205.000 negli uomini e 185.700 nelle donne. Nell’ambito dei linfomi, le stime indicano un’incidenza di 2.150 nuove diagnosi di linfoma di Hodgkin (dati aggiornati al 2020) e 14.400 di non Hodgkin (dati aggiornati al 2022), con una maggiore prevalenza nei soggetti maschi in entrambi i casi.
Chiunque potrebbe sviluppare un cancro, ma alcune persone sono esposte a un rischio maggiore a causa di fattori predisponenti chiamati “FATTORI DI RISCHIO”. Questi si dividono in:
Sui primi si può intervenire adottando una serie di comportamenti per ridurre il rischio di ammalarsi. Tale approccio è definito prevenzione primaria.
Queste raccomandazioni costituiscono il cosiddetto “Codice Europeo contro il Cancro”, e si basano sulle migliori evidenze scientifiche finora disponibili.
Il 5 dicembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale del volontariato. Le giornate internazionali sono occasioni importanti per sensibilizzare la comunità su questioni di interesse. Ed il 5 dicembre è l’occasione per aumentare la consapevolezza sull'importanza del servizio di volontariato, ed in tal modo stimolare un maggior numero di persone a offrire il proprio tempo come volontari.
La Giornata Internazionale del volontariato è anche un'opportunità per le associazioni e i singoli volontari per promuovere le loro iniziative e i loro progetti. Anche Linfovita coglie questa occasione per ricordare la campagna “IL BONSAI DI NATALE”: acquistando un piccolo albero darete anche voi un contributo concreto alla ricerca e ai servizi offerti ai pazienti. Con questa iniziativa, infatti, Linfovita si pone l’ambizioso obiettivo di contribuire all’acquisto di un appartamento sito in prossimità dell’ospedale Morelli di Reggio Calabria, per poter offrire ospitalità in un ambiente accogliente e intimo a tutti quei pazienti e familiari che, risiedendo lontano dalla città, per motivi di salute sono costretti a soggiornare lontano dalle loro abitazioni.
Potete ricevere il Bonsai contattando i seguenti numeri:
REGGIO CALABRIA 345 0855763 / 345 1075618
ZONA IONICA 393 5546785 / 347 8444091
ZONA TIRRENICA 335 8137313
Nella Giornata Internazionale del Volontariato, noi di Linfovita vogliamo riconoscere il contributo dei nostri volontari, che ogni giorno dedicano tempo e sforzi per la comunità e per aiutare a costruire un futuro migliore. Esprimiamo la nostra più profonda gratitudine e orgoglio per il loro impegno, dedizione, solidarietà, ed empatia. Ed infine ringraziamo tutti coloro che sono passati a trovarci nelle piazze ieri e che, tramite un acquisto solidale o una donazione, supportano la nostra associazione diventando parte attiva del cambiamento.
ECHELON-1 è uno studio internazionale che ha coinvolto 1334 pazienti con diagnosi di linfoma di Hodgkin classico in stadio avanzato (stadio III o IV di malattia). Lo studio ha messo a confronto il trattamento standard ABVD (doxorubicina, bleomicina, vinblastina e dacarbazina) con il trattamento sperimentale A+AVD (brentuximab vedotin, doxorubicina, vinblastina e dacarbazina) nel quale la bleomicina viene sostituita con il farmaco brentuximab vedotin.
Già nel 2018, sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine, erano stati pubblicati i risultati riguardanti la sopravvivenza libera da progressione, ossia il tempo che intercorre tra la diagnosi e la recidiva o progressione di malattia. I dati avevano evidenziato una riduzione del rischio di progressione di malattia o decesso nei pazienti trattati con brentuximab vedotin + AVD rispetto ai pazienti che avevano ricevuto il trattamento standard.
Più recentemente, al Congresso della Società Europea di Ematologia, sono stati presentati anche i risultati riguardanti la sopravvivenza globale dei pazienti e il profilo di sicurezza delle due combinazioni terapeutiche.
Il trattamento sperimentale con il farmaco brentuximab vedotin in combinazione con AVD ha dimostrato di migliorare in modo significativo la sopravvivenza globale, con una riduzione del rischio di decesso del 41% rispetto al regime standard. Questo dato si conferma indipendentemente dalle caratteristiche dei pazienti e della malattia alla diagnosi come: lo stadio, il sesso, il risultato della PET dopo il secondo ciclo di terapia, l’età (<60 o ≥60 anni), l’area geografica.
Il regime di trattamento con brentuximab vedotin ha mostrato un profilo di sicurezza paragonabile a quello del regime ABVD. In particolare, anche se l’incidenza di neuropatia periferica è risultata maggiore nel braccio sperimentale rispetto a quello standard, va osservato che tale tossicità è migliorata o si è completamente risolta nella maggioranza dei casi in entrambi i gruppi di trattamento. Si è registrata inoltre una riduzione degli eventi di tossicità tardiva e in particolare di secondi tumori nel braccio sperimentale rispetto allo standard (sia tumori solidi sia neoplasie ematologiche).
Infine, è stato riscontrato un miglioramento della probabilità di andare incontro a gravidanze nelle donne trattate con A+AVD rispetto ad ABVD.
Pertanto, i dati finora disponibili derivanti dallo studio ECHELON-1 supportano l’utilizzo della combinazione brentuximab vedotin +AVD per il trattamento del linfoma di Hodgkin in stadio avanzato.
Ogni anno il mese di settembre è dedicato alla consapevolezza sul linfoma, e il 15 settembre si celebra la Giornata mondiale per la consapevolezza sul linfoma.
Il linfoma è una malattia del sistema linfatico e, più precisamente, dei linfociti, ovvero i globuli bianchi che si occupano della difesa dell’organismo dagli attacchi degli agenti esterni. A causa di alcune alterazioni, queste cellule crescono fuori controllo e si raccolgono nei linfonodi. Attraverso il sangue e i vasi linfatici la malattia può diffondersi ad altri linfonodi, alla milza, al midollo osseo oppure a organi extra-linfatici. Ogni anno nel mondo più di 864,000 persone ricevono una diagnosi di linfoma.
L’associazione Linfovita, in occasione della Giornata mondiale per la sensibilizzazione sui linfomi, si unisce alla comunità scientifica nel diffondere il messaggio “Non possiamo aspettare”.
“Non possiamo aspettare” a porre fine alle conseguenze indesiderate che la pandemia da SARS-CoV-2 ha avuto sui pazienti che convivono con il linfoma.
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, infatti, le persone hanno dovuto scontrarsi con l’esitazione nel cercare cure mediche, con ritardi nella diagnosi, con l’accesso ritardato alle cure, e con un incremento del carico psicologico. Ciò è stato causato dallo spostamento delle priorità del sistema sanitario durante la pandemia. Ma ora è arrivato il momento di riportare le tempistiche di diagnosi e cura agli standard pre-Covid. Non possiamo più aspettare!
Il riconoscimento dei sintomi è essenziale per l’individuazione precoce della malattia. Se noti segni o sintomi di linfoma, non esitare e parlane con il tuo medico. Il sintomo più comune è il gonfiore ai linfonodi. Altri sintomi sono: brividi/sbalzi di temperatura; febbre ricorrente; sudorazione eccessiva, spesso notturna; perdita di peso inspiegabile; perdita di appetito; stanchezza persistente e mancanza di energia; mancanza di respiro e tosse; prurito persistente su tutto il corpo senza causa apparente o eruzione cutanea; stanchezza generale; tonsille ingrossate; mal di testa. Va tuttavia sottolineato che tali sintomi non sono esclusivi del linfoma e sono comunemente osservati in altre malattie meno gravi, come l'influenza o altre infezioni virali (incluso il Covid-19). In questi casi tali sintomi non durano a lungo; se invece persistono nel tempo, è necessario rivolgersi al proprio medico.
“Non possiamo aspettare” a tracciare i sottotipi di linfoma.
Secondo l’ultima classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblicata nel 2017, esistono oltre 80 sottotipi diversi di linfoma, con differenti valutazioni diagnostiche, protocolli di trattamento e prognosi. È necessario creare consapevolezza sull’importanza di riconoscere e segnalare il sottotipo specifico. Una corretta segnalazione, a livello locale e globale, del sottotipo di linfoma diagnosticato è fondamentale in quanto permette di comprendere l'effettiva prevalenza della malattia e la sua prognosi, e di conseguenza permette di migliorare la ricerca e la cura del paziente.
È tempo di cambiare! Puoi unirti anche tu a questo cambiamento e aggiungere la tua voce alla chiamata.
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Vieni a trovarci il 15 settembre alle ore 16:30 presso il Grand Hotel Excelsior di Reggio Calabria per celebrare insieme la Giornata Mondiale per la consapevolezza sui linfomi.
Una diagnosi di linfoma, o di tumore in generale, ha delle conseguenze non solo a livello fisico ma anche a livello psicosociale. Gli effetti psicologici possono persistere anche dopo la fine dei trattamenti e in seguito alla guarigione.
La Fear of Cancer Recurrence (FCR), anche detta Sindrome della spada di Damocle, ossia la paura che il cancro si ripresenti, è l’effetto psicosociale che i pazienti manifestano maggiormente. È definita come la paura o preoccupazione che può colpire sia i pazienti con una malattia curabile che temono il ritorno del cancro, sia i pazienti con una malattia avanzata che temono la progressione. Nello specifico, secondo un’indagine condotta dalla Lymphoma Coalition, il 43% dei pazienti con diagnosi di linfoma ha riportato di aver sofferto di FCR durante i trattamenti, mentre il 72% ha manifestato FCR dopo la fine dei trattamenti. La FCR sembra quindi manifestarsi maggiormente dopo le terapie, quando le visite e in generale i contatti tra i pazienti e il team medico diventano meno frequenti.
La FCR è associata a stati d’animo quali ansia e isolamento e può interferire con la capacità di pianificare il futuro. Si tratta quindi di un fattore psicologico con un impatto significativo sulla qualità della vita di un individuo, a seconda del livello di gravità con cui si presenta.
Non è ovviamente possibile garantire che il cancro non tornerà o non si diffonderà, ma è possibile lavorare con i pazienti in modo che possano gradualmente ridurre l’impatto che questa paura ha sulla loro vita.
Negli ultimi anni sono stati condotti molti studi che valutano delle strategie di intervento per gestire la FCR. In particolare, queste includono:
Acquisire consapevolezza. Molte persone cercano di ignorare i sentimenti negativi come paura e ansia, ma questo atteggiamento non fa altro che rendere tali sensazioni ancora più travolgenti.
Affrontare le paure: accettare il fatto che si sperimenterà paura e concentrarsi sui modi per gestirla. Ansia e paura possono aumentare temporaneamente in momenti specifici, come appuntamenti per le visite di controllo o anniversario della diagnosi. Spesso è utile parlare delle proprie paure con un amico, un familiare o un professionista della salute mentale. Molti pazienti trovano inoltre utile unirsi a gruppi di supporto: l'esperienza di gruppo spesso crea un senso di appartenenza che aiuta a sentirsi meno soli e più compresi.
Ottenere il controllo tramite una corretta informazione e comunicazione tra medico e paziente. Anche se per la maggior parte dei tumori è possibile fare una previsione della possibilità di recidiva o progressione, nessun medico può sapere esattamente cosa accadrà in futuro. Un operatore sanitario che conosce la storia medica del paziente può parlargli della possibilità che il cancro si ripresenti e informare anche su quali sintomi cercare. Sapere cosa aspettarsi può aiutare a smettere di preoccuparsi che ogni dolore significhi che il cancro è tornato.
Gestire lo stress. Ci sono diversi modi per gestire lo stress e ridurre il livello generale di ansia. Questi includono: trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici, concentrarsi su hobby e altre attività, fare una passeggiata, meditare, fare esercizio regolarmente, leggere un libro o guardare un film.
Fare scelte salutari. Abitudini sane come mangiare pasti nutrienti, fare esercizio fisico regolarmente e dormire a sufficienza aiutano le persone a sentirsi meglio sia fisicamente che emotivamente. Evitare abitudini malsane, come il fumo e il consumo eccessivo di alcol, aiuta le persone a sentire di avere un maggiore controllo sulla propria salute.
Fornire informazioni adeguate, normalizzare l'FCR, incoraggiare i pazienti a parlarne e indirizzarli in modo appropriato sono modi importanti con cui gli oncologi possono contribuire.
Fonte: Lymphoma Coalition
Si avvicinano le festività pasquali e vi ricordiamo che nelle giornate di sabato 26 e domenica 27 marzo in Piazza S. Giorgio a Reggio Calabria potete trovare le nostre uova di Pasqua solidali; in alternativa potete richiederle al 345 0855763.
Questo semplice gesto ha molteplici risvolti positivi di cui vogliamo parlarvi.
In primo luogo, con il vostro acquisto potrete offrire un aiuto economico concreto a Linfovita, e consentirete allo staff e ai volontari dell’associazione di portare avanti le iniziative rivolte ai pazienti che ricevono una diagnosi di linfoma. Ad esempio, in questo periodo Linfovita sta lavorando per mettere a disposizione la Residenza dei Papaveri, una sistemazione gratuita vicino all’Ospedale per i soci e i loro familiari che abitano distanti dalla struttura ospedaliera, e Il trasporto da casa all'ospedale e viceversa per aiutare coloro che non hanno la possibilità di raggiungere autonomamente il luogo di cura. Ad ogni modo vi invitiamo a consultare il sito di Linfovita per saperne di più sui progetti che sosterrete con il vostro acquisto. Informarsi adeguatamente sui progetti a cui il denaro è destinato è infatti non solo doveroso ma anche motivante.
Inoltre, un acquisto o una donazione solidale è un regalo innanzitutto verso sé stessi. Alcuni studi hanno dimostrato che i comportamenti altruistici sono correlati al benessere soggettivo sotto diversi punti di vista: autostima, umore, empatia, senso di gratificazione.
Infine, facendo un regalo solidale si diventa tramite per la diffusione di valori importanti come solidarietà e impegno, e si sensibilizza chi lo riceve. In questo modo le organizzazioni di volontariato possono raggiungere un numero sempre maggiore di persone che sposano la stessa causa per un obiettivo comune.
Se deciderete di optare per l’acquisto delle nostre uova di Pasqua solidali, inviate una foto alla nostra pagina Facebook. I vostri scatti ci aiuteranno a diffondere il nostro messaggio!
Si parla spesso di studi clinici, ma pochi al di fuori degli addetti ai lavori sanno realmente di cosa si tratti.
Cos’è uno studio clinico o sperimentazione clinica?
Uno studio clinico o sperimentazione clinica è una ricerca medica che coinvolge i pazienti per valutare nuovi modi di prevenire, diagnosticare o curare una malattia. Gli studi clinici aiutano a determinare se i nuovi trattamenti sono migliori in termini di sicurezza ed efficacia rispetto ai trattamenti standard.
Quando un paziente prende parte a una sperimentazione clinica, contribuisce a migliorare la conoscenza sul cancro e la cura per i futuri pazienti. Gli studi clinici sono quindi la chiave per il progresso della medicina.
Gli studi clinici sono esaminati sia a livello nazionale dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che a livello locale da un comitato etico. Ogni ospedale in cui si svolge una sperimentazione clinica dispone di un comitato etico composto da medici, esperti di bioetica e biostatistica, rappresentanti dei pazienti, ed altre figure qualificate che esaminano la sperimentazione per verificarne la sicurezza e l’eticità.
Cosa comporta uno studio clinico?
La partecipazione ad uno studio clinico comporta potenziali rischi e benefici. I vantaggi possono essere diversi: l’accesso a un nuovo trattamento non disponibile al di fuori della sperimentazione, e quindi la possibilità di trarne immediatamente beneficio, se questo si rivelasse più efficace del trattamento standard; un monitoraggio ancora più attento. I potenziali rischi sono: minore efficacia del nuovo trattamento/procedura rispetto allo standard; effetti collaterali inattesi o peggiori di quelli del trattamento standard; necessità di esami aggiuntivi (biopsie, prelievi di sangue, etc.) rispetto alla normale pratica clinica.
Prima di partecipare ad uno studio clinico, al paziente viene fornito un documento generalmente chiamato “foglio informativo” in cui vengono spiegati nel dettaglio tali rischi e benefici. Il paziente deve prendersi il tempo necessario per leggere attentamente le informazioni contenute nel documento e per fare domande. In seguito, se il paziente decide di partecipare, gli viene richiesto di firmare il documento di "consenso informato", per confermare la volontà di prendere parte allo studio. Una volta fornito il consenso, dal momento che la partecipazione a una sperimentazione clinica è del tutto volontaria, un paziente può interrompere la sua partecipazione in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.
Perché non tutti i pazienti possono partecipare a uno studio clinico?
Ogni studio clinico si basa su un documento fondamentale chiamato protocollo. Il protocollo spiega cosa sarà fatto durante la sperimentazione. Contiene inoltre i cosiddetti “criteri di eleggibilità” che aiutano il medico a decidere se lo studio clinico in questione è adatto ad un determinato paziente.
Questi requisiti, che devono essere soddisfatti affinché una persona possa essere inclusa in una sperimentazione, aiutano a garantire che i partecipanti a uno studio siano simili tra loro in termini di fattori quali tipo di cancro, stadio della malattia, salute generale e trattamenti precedenti. Quando tutti i partecipanti soddisfano gli stessi criteri, i risultati dello studio saranno in modo più sicuro riconducibili al trattamento che si sta sperimentando e non ad altri fattori casuali.
Altri studi clinici non prevedono l’utilizzo di un trattamento o procedura specifica, ma la semplice raccolta delle informazioni cliniche e biologiche del paziente al fine di definire le caratteristiche della malattia che possono influenzare il risultato del trattamento.
Ad ogni modo, se ad un paziente si pone davanti l’opportunità di uno studio clinico, è importante che questi sia adeguatamente informato per intraprendere il percorso in piena consapevolezza.
Il termine inglese “patient engagement” vuol dire letteralmente “coinvolgimento del paziente”; nello specifico, con esso si intende la partecipazione attiva del paziente nel suo percorso di cura.
Per quanto questo concetto possa apparire ovvio, non lo è stato per lungo tempo.
In passato, infatti, la tendenza per molti pazienti era quella di subire in modo passivo le decisioni del curante, e i professionisti erano maggiormente orientati a confrontarsi con parenti e caregivers piuttosto che con il malato stesso, nel tentativo di evitargli ansia e preoccupazione. Tuttavia, tale approccio contribuiva a peggiorare ulteriormente la condizione del paziente, inibendo la sua capacità di prendere decisioni e reagire alla situazione.
Alla luce di ciò, è sorta la necessità di riconsiderare il rapporto medico-paziente, al fine di rendere il malato protagonista della sua storia, e del processo decisionale durante tutto il percorso di cura. Diversi studi hanno infatti dimostrato l’impatto positivo delle scelte condivise tra medico e paziente sulla qualità di tale percorso e, quindi, sulla salute generale.
Il coinvolgimento del paziente, tuttavia, non avviene sempre in modo semplice e immediato. Tra le altre cose, esso richiede da parte del paziente una informazione adeguata e conoscenza attiva riguardo il proprio stato di salute, gli esami e le cure alle quali viene sottoposto.
Inoltre, ogni paziente è diverso e lo stesso approccio potrebbe non essere adatto a tutti. Esiste infatti una certa variabilità nel coinvolgimento dei pazienti nell’assistenza sanitaria, dovuta a svariate ragioni organizzative e a fattori personali quali valori culturali, alfabetizzazione sanitaria e uso della tecnologia per ottenere informazioni, motivazione, estensione della malattia, supporto psicosociale. A questo proposito è stato recentemente sviluppato un modello, definito “Interactive Care Model”, che fornisce una guida pratica su come promuovere realmente un coinvolgimento individualizzato del paziente, con il fine ultimo di consentirgli scelte consapevoli per la propria salute.
Gli incontri del progetto “Un medico per amico”, l’ultimo dei quali tenutosi lo scorso 20 novembre, e organizzati dall’associazione LINFOVITA, hanno anche questo obiettivo: dare risalto alla centralità e specificità del paziente, e favorire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente stesso, basata sulla fiducia, sull'ascolto e sull'impegno reciproco.
Fonte: Karen Drenkard et al. Interactive Care Model. A framework for More Fully Engaging People in their Healthcare. The Journal of Nursing Administration, 2015.
I trattamenti standard attualmente disponibili per i pazienti che ricevono una diagnosi di linfoma sono principalmente la chemioimmunoterapia, la radioterapia, e il trapianto di cellule staminali.
Il panorama di trattamento è però in rapida evoluzione. Tra le strategie emergenti ci sono le CAR-T, dall’inglese “Chimeric Antigen Receptor T cell therapies” ovvero “Terapie a base di cellule T esprimenti un Recettore Chimerico per antigene”. È un tipo di trattamento che utilizza i linfociti T del paziente, che vengono modificati al fine di riconoscere e distruggere le cellule del linfoma. Si basa quindi sull’utilizzo delle stesse cellule del paziente quale “farmaco” contro il tumore.
La tecnologia CAR-T è stata inizialmente sviluppata dall’Università della Pennsylvania (il primo trattamento è stato somministrato nel 2012 negli Stati Uniti), e prevede i seguenti passaggi:
Dalla descrizione riportata, si può evincere quanto l’organizzazione della terapia CAR-T sia complessa; per questo può essere eseguita solo presso centri specialistici selezionati. Essendo inoltre un trattamento altamente innovativo, rimangono degli interrogativi a cui dare risposta. In questo senso la ricerca italiana sta contribuendo in modo significativo, come dimostrano i risultati di alcuni studi presentati al recente Congresso Nazionale della Società Italiana di Ematologia (SIE), tenutosi a Milano dal 24 al 27 ottobre 2021.
Attualmente in Italia sono due le terapie CAR-T approvate dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA): Kymriah per il trattamento del linfoma diffuso a grandi cellule B, e Yescarta per il trattamento del linfoma diffuso a grandi cellule B e del linfoma primitivo del mediastino a cellule B, in entrambi i casi per pazienti già sottoposti ad almeno due linee di terapia sistemica (compresa la chemioterapia e il trapianto di cellule staminali). Sono tuttavia in corso studi clinici per l’utilizzo delle cellule CAR-T anche in altri tipi di linfoma.
I linfomi sono suddivisi in due grandi categorie: linfomi di Hodgkin e linfomi non Hodgkin. I linfomi non Hodgkin a loro volta possono essere distinti in base al tipo di linfociti che danno origine al linfoma: linfociti B (a cellule B) e linfociti T (a cellule T).
I linfomi a cellule T sono relativamente rari, rappresentano infatti il 10-15% di tutti i linfomi non-Hodgkin, che a loro volta rappresentano circa il 4% di tutte le neoplasie in Italia. Si tratta di un gruppo di disordini neoplastici altamente eterogeneo; l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riconosce infatti circa 30 differenti sottotipi, detti istotipi. Ognuno di questi differisce per caratteristiche del tessuto tumorale, presentazione clinica, risposta alle terapie e prognosi.
Il linfoma a cellule T più diffuso (circa il 30%) è quello definito a cellule T periferiche non altrimenti specificato (PTCL, NOS). Seguono il linfoma anaplastico ALK negativo o ALK positivo (cosiddetto per l’assenza o presenza della proteina ALK), il linfoma angioimmunoblastico, il linfoma nasale extranodale a cellule NK/T. Il linfoma a cellule T dell’adulto, epatosplenico e altri sottotipi sono ancor più rari.
Proprio dalla rarità ed eterogeneità dei linfomi a cellule T derivano alcune difficoltà. La prima è quella di porre una diagnosi accurata, al fine di poter scegliere il trattamento adeguato. Il percorso terapeutico può infatti essere differente a seconda dell’istotipo diagnosticato e dello stadio della malattia. Inoltre, nessun singolo centro di oncologia o ematologia al mondo ha in cura un numero elevato di pazienti con questa diagnosi: questa è stata la principale limitazione alla comprensione di questa patologia e al progresso nella cura dei pazienti.
Nonostante ciò, negli ultimi anni si sono registrati importanti progressi.
Innanzitutto, l’OMS ha aggiornato la classificazione dei linfomi a cellule T, definendo con maggiore precisione le caratteristiche identificative di alcune categorie. La corretta applicazione dei più recenti principi classificativi, pertanto, si traduce in diagnosi sempre più accurate. Inoltre, il patologo di riferimento che effettua la diagnosi, in caso di dubbi sull’interpretazione del vetrino, può richiedere la revisione da parte di un secondo patologo, specializzato nella diagnosi delle patologie linfoproliferative.
In aggiunta, negli ultimi anni sono state stabilite con successo delle collaborazioni internazionali, grazie alle quali, anche per patologie rare come i linfomi T, è diventato possibile condurre uno studio, raccogliere dati e ricavare informazioni precedentemente sconosciute. La collaborazione di molti centri onco-ematologici nel mondo sta infatti contribuendo in modo significativo a definire meglio le caratteristiche dei diversi sottotipi e la loro prognosi, a migliorare la conoscenza di quei fattori che influenzano la prognosi, a indagare sulle strategie di trattamento più adeguate a queste neoplasie.
La collaborazione e la condivisione risultano perciò di fondamentale importanza per far avanzare la ricerca e garantire ai pazienti che ricevono questa diagnosi cure sempre migliori.