Si avvicinano le festività pasquali e vi ricordiamo che nelle giornate di sabato 26 e domenica 27 marzo in Piazza S. Giorgio a Reggio Calabria potete trovare le nostre uova di Pasqua solidali; in alternativa potete richiederle al 345 0855763.
Questo semplice gesto ha molteplici risvolti positivi di cui vogliamo parlarvi.
In primo luogo, con il vostro acquisto potrete offrire un aiuto economico concreto a Linfovita, e consentirete allo staff e ai volontari dell’associazione di portare avanti le iniziative rivolte ai pazienti che ricevono una diagnosi di linfoma. Ad esempio, in questo periodo Linfovita sta lavorando per mettere a disposizione la Residenza dei Papaveri, una sistemazione gratuita vicino all’Ospedale per i soci e i loro familiari che abitano distanti dalla struttura ospedaliera, e Il trasporto da casa all'ospedale e viceversa per aiutare coloro che non hanno la possibilità di raggiungere autonomamente il luogo di cura. Ad ogni modo vi invitiamo a consultare il sito di Linfovita per saperne di più sui progetti che sosterrete con il vostro acquisto. Informarsi adeguatamente sui progetti a cui il denaro è destinato è infatti non solo doveroso ma anche motivante.
Inoltre, un acquisto o una donazione solidale è un regalo innanzitutto verso sé stessi. Alcuni studi hanno dimostrato che i comportamenti altruistici sono correlati al benessere soggettivo sotto diversi punti di vista: autostima, umore, empatia, senso di gratificazione.
Infine, facendo un regalo solidale si diventa tramite per la diffusione di valori importanti come solidarietà e impegno, e si sensibilizza chi lo riceve. In questo modo le organizzazioni di volontariato possono raggiungere un numero sempre maggiore di persone che sposano la stessa causa per un obiettivo comune.
Se deciderete di optare per l’acquisto delle nostre uova di Pasqua solidali, inviate una foto alla nostra pagina Facebook. I vostri scatti ci aiuteranno a diffondere il nostro messaggio!
Si parla spesso di studi clinici, ma pochi al di fuori degli addetti ai lavori sanno realmente di cosa si tratti.
Cos’è uno studio clinico o sperimentazione clinica?
Uno studio clinico o sperimentazione clinica è una ricerca medica che coinvolge i pazienti per valutare nuovi modi di prevenire, diagnosticare o curare una malattia. Gli studi clinici aiutano a determinare se i nuovi trattamenti sono migliori in termini di sicurezza ed efficacia rispetto ai trattamenti standard.
Quando un paziente prende parte a una sperimentazione clinica, contribuisce a migliorare la conoscenza sul cancro e la cura per i futuri pazienti. Gli studi clinici sono quindi la chiave per il progresso della medicina.
Gli studi clinici sono esaminati sia a livello nazionale dalla Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che a livello locale da un comitato etico. Ogni ospedale in cui si svolge una sperimentazione clinica dispone di un comitato etico composto da medici, esperti di bioetica e biostatistica, rappresentanti dei pazienti, ed altre figure qualificate che esaminano la sperimentazione per verificarne la sicurezza e l’eticità.
Cosa comporta uno studio clinico?
La partecipazione ad uno studio clinico comporta potenziali rischi e benefici. I vantaggi possono essere diversi: l’accesso a un nuovo trattamento non disponibile al di fuori della sperimentazione, e quindi la possibilità di trarne immediatamente beneficio, se questo si rivelasse più efficace del trattamento standard; un monitoraggio ancora più attento. I potenziali rischi sono: minore efficacia del nuovo trattamento/procedura rispetto allo standard; effetti collaterali inattesi o peggiori di quelli del trattamento standard; necessità di esami aggiuntivi (biopsie, prelievi di sangue, etc.) rispetto alla normale pratica clinica.
Prima di partecipare ad uno studio clinico, al paziente viene fornito un documento generalmente chiamato “foglio informativo” in cui vengono spiegati nel dettaglio tali rischi e benefici. Il paziente deve prendersi il tempo necessario per leggere attentamente le informazioni contenute nel documento e per fare domande. In seguito, se il paziente decide di partecipare, gli viene richiesto di firmare il documento di "consenso informato", per confermare la volontà di prendere parte allo studio. Una volta fornito il consenso, dal momento che la partecipazione a una sperimentazione clinica è del tutto volontaria, un paziente può interrompere la sua partecipazione in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.
Perché non tutti i pazienti possono partecipare a uno studio clinico?
Ogni studio clinico si basa su un documento fondamentale chiamato protocollo. Il protocollo spiega cosa sarà fatto durante la sperimentazione. Contiene inoltre i cosiddetti “criteri di eleggibilità” che aiutano il medico a decidere se lo studio clinico in questione è adatto ad un determinato paziente.
Questi requisiti, che devono essere soddisfatti affinché una persona possa essere inclusa in una sperimentazione, aiutano a garantire che i partecipanti a uno studio siano simili tra loro in termini di fattori quali tipo di cancro, stadio della malattia, salute generale e trattamenti precedenti. Quando tutti i partecipanti soddisfano gli stessi criteri, i risultati dello studio saranno in modo più sicuro riconducibili al trattamento che si sta sperimentando e non ad altri fattori casuali.
Altri studi clinici non prevedono l’utilizzo di un trattamento o procedura specifica, ma la semplice raccolta delle informazioni cliniche e biologiche del paziente al fine di definire le caratteristiche della malattia che possono influenzare il risultato del trattamento.
Ad ogni modo, se ad un paziente si pone davanti l’opportunità di uno studio clinico, è importante che questi sia adeguatamente informato per intraprendere il percorso in piena consapevolezza.
Il termine inglese “patient engagement” vuol dire letteralmente “coinvolgimento del paziente”; nello specifico, con esso si intende la partecipazione attiva del paziente nel suo percorso di cura.
Per quanto questo concetto possa apparire ovvio, non lo è stato per lungo tempo.
In passato, infatti, la tendenza per molti pazienti era quella di subire in modo passivo le decisioni del curante, e i professionisti erano maggiormente orientati a confrontarsi con parenti e caregivers piuttosto che con il malato stesso, nel tentativo di evitargli ansia e preoccupazione. Tuttavia, tale approccio contribuiva a peggiorare ulteriormente la condizione del paziente, inibendo la sua capacità di prendere decisioni e reagire alla situazione.
Alla luce di ciò, è sorta la necessità di riconsiderare il rapporto medico-paziente, al fine di rendere il malato protagonista della sua storia, e del processo decisionale durante tutto il percorso di cura. Diversi studi hanno infatti dimostrato l’impatto positivo delle scelte condivise tra medico e paziente sulla qualità di tale percorso e, quindi, sulla salute generale.
Il coinvolgimento del paziente, tuttavia, non avviene sempre in modo semplice e immediato. Tra le altre cose, esso richiede da parte del paziente una informazione adeguata e conoscenza attiva riguardo il proprio stato di salute, gli esami e le cure alle quali viene sottoposto.
Inoltre, ogni paziente è diverso e lo stesso approccio potrebbe non essere adatto a tutti. Esiste infatti una certa variabilità nel coinvolgimento dei pazienti nell’assistenza sanitaria, dovuta a svariate ragioni organizzative e a fattori personali quali valori culturali, alfabetizzazione sanitaria e uso della tecnologia per ottenere informazioni, motivazione, estensione della malattia, supporto psicosociale. A questo proposito è stato recentemente sviluppato un modello, definito “Interactive Care Model”, che fornisce una guida pratica su come promuovere realmente un coinvolgimento individualizzato del paziente, con il fine ultimo di consentirgli scelte consapevoli per la propria salute.
Gli incontri del progetto “Un medico per amico”, l’ultimo dei quali tenutosi lo scorso 20 novembre, e organizzati dall’associazione LINFOVITA, hanno anche questo obiettivo: dare risalto alla centralità e specificità del paziente, e favorire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente stesso, basata sulla fiducia, sull'ascolto e sull'impegno reciproco.
Fonte: Karen Drenkard et al. Interactive Care Model. A framework for More Fully Engaging People in their Healthcare. The Journal of Nursing Administration, 2015.
I trattamenti standard attualmente disponibili per i pazienti che ricevono una diagnosi di linfoma sono principalmente la chemioimmunoterapia, la radioterapia, e il trapianto di cellule staminali.
Il panorama di trattamento è però in rapida evoluzione. Tra le strategie emergenti ci sono le CAR-T, dall’inglese “Chimeric Antigen Receptor T cell therapies” ovvero “Terapie a base di cellule T esprimenti un Recettore Chimerico per antigene”. È un tipo di trattamento che utilizza i linfociti T del paziente, che vengono modificati al fine di riconoscere e distruggere le cellule del linfoma. Si basa quindi sull’utilizzo delle stesse cellule del paziente quale “farmaco” contro il tumore.
La tecnologia CAR-T è stata inizialmente sviluppata dall’Università della Pennsylvania (il primo trattamento è stato somministrato nel 2012 negli Stati Uniti), e prevede i seguenti passaggi:
Dalla descrizione riportata, si può evincere quanto l’organizzazione della terapia CAR-T sia complessa; per questo può essere eseguita solo presso centri specialistici selezionati. Essendo inoltre un trattamento altamente innovativo, rimangono degli interrogativi a cui dare risposta. In questo senso la ricerca italiana sta contribuendo in modo significativo, come dimostrano i risultati di alcuni studi presentati al recente Congresso Nazionale della Società Italiana di Ematologia (SIE), tenutosi a Milano dal 24 al 27 ottobre 2021.
Attualmente in Italia sono due le terapie CAR-T approvate dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA): Kymriah per il trattamento del linfoma diffuso a grandi cellule B, e Yescarta per il trattamento del linfoma diffuso a grandi cellule B e del linfoma primitivo del mediastino a cellule B, in entrambi i casi per pazienti già sottoposti ad almeno due linee di terapia sistemica (compresa la chemioterapia e il trapianto di cellule staminali). Sono tuttavia in corso studi clinici per l’utilizzo delle cellule CAR-T anche in altri tipi di linfoma.
I linfomi sono suddivisi in due grandi categorie: linfomi di Hodgkin e linfomi non Hodgkin. I linfomi non Hodgkin a loro volta possono essere distinti in base al tipo di linfociti che danno origine al linfoma: linfociti B (a cellule B) e linfociti T (a cellule T).
I linfomi a cellule T sono relativamente rari, rappresentano infatti il 10-15% di tutti i linfomi non-Hodgkin, che a loro volta rappresentano circa il 4% di tutte le neoplasie in Italia. Si tratta di un gruppo di disordini neoplastici altamente eterogeneo; l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riconosce infatti circa 30 differenti sottotipi, detti istotipi. Ognuno di questi differisce per caratteristiche del tessuto tumorale, presentazione clinica, risposta alle terapie e prognosi.
Il linfoma a cellule T più diffuso (circa il 30%) è quello definito a cellule T periferiche non altrimenti specificato (PTCL, NOS). Seguono il linfoma anaplastico ALK negativo o ALK positivo (cosiddetto per l’assenza o presenza della proteina ALK), il linfoma angioimmunoblastico, il linfoma nasale extranodale a cellule NK/T. Il linfoma a cellule T dell’adulto, epatosplenico e altri sottotipi sono ancor più rari.
Proprio dalla rarità ed eterogeneità dei linfomi a cellule T derivano alcune difficoltà. La prima è quella di porre una diagnosi accurata, al fine di poter scegliere il trattamento adeguato. Il percorso terapeutico può infatti essere differente a seconda dell’istotipo diagnosticato e dello stadio della malattia. Inoltre, nessun singolo centro di oncologia o ematologia al mondo ha in cura un numero elevato di pazienti con questa diagnosi: questa è stata la principale limitazione alla comprensione di questa patologia e al progresso nella cura dei pazienti.
Nonostante ciò, negli ultimi anni si sono registrati importanti progressi.
Innanzitutto, l’OMS ha aggiornato la classificazione dei linfomi a cellule T, definendo con maggiore precisione le caratteristiche identificative di alcune categorie. La corretta applicazione dei più recenti principi classificativi, pertanto, si traduce in diagnosi sempre più accurate. Inoltre, il patologo di riferimento che effettua la diagnosi, in caso di dubbi sull’interpretazione del vetrino, può richiedere la revisione da parte di un secondo patologo, specializzato nella diagnosi delle patologie linfoproliferative.
In aggiunta, negli ultimi anni sono state stabilite con successo delle collaborazioni internazionali, grazie alle quali, anche per patologie rare come i linfomi T, è diventato possibile condurre uno studio, raccogliere dati e ricavare informazioni precedentemente sconosciute. La collaborazione di molti centri onco-ematologici nel mondo sta infatti contribuendo in modo significativo a definire meglio le caratteristiche dei diversi sottotipi e la loro prognosi, a migliorare la conoscenza di quei fattori che influenzano la prognosi, a indagare sulle strategie di trattamento più adeguate a queste neoplasie.
La collaborazione e la condivisione risultano perciò di fondamentale importanza per far avanzare la ricerca e garantire ai pazienti che ricevono questa diagnosi cure sempre migliori.
15 settembre - Giornata Mondiale della consapevolezza sul Linfoma
L’associazione Linfovita Onlus è membro di Lymphoma Coalition, che ha istituito nel 2004 la Giornata Mondiale della Consapevolezza sul Linfoma. Linfovita si unisce a questa organizzazione e a tantissime altre nel mondo per celebrare questa ricorrenza.
Il 15 settembre 2021 a Reggio Calabria presso l’Hotel Excelsior si terrà un incontro rivolto a pazienti e caregivers, con l’obiettivo di diffondere conoscenza in merito al riconoscimento dei sintomi del linfoma, all’importanza di una diagnosi precoce, ai diversi sottotipi esistenti e al loro trattamento, e per sensibilizzare al valore della ricerca per raggiungere risultati sempre migliori. In tutto il mondo, durante la pandemia, si è registrata una alterazione del normale iter diagnostico/terapeutico dei linfomi; in particolare meno diagnosi e in una fase più avanzata della malattia, e ritardi nell’inizio dei trattamenti. Pertanto, quest’anno la sensibilizzazione verso queste tematiche risulta particolarmente rilevante.
Il linfoma è la settima forma più comune di tumore, e si presenta più frequentemente nei Paesi sviluppati. In tutto il mondo, ogni anno a più di 735.000 persone viene diagnosticato un linfoma, un nuovo paziente ogni due ore.
Il report dell’Associazione Italiana Registri Tumori “I numeri del cancro in Italia 2020” (AIRTUM, https://www.registri-tumori.it/cms/pubblicazioni/i-numeri-del-cancro-italia-2020) ha stimato 15.350 diagnosi di linfoma nel 2020 in Italia, così suddivise:
L’incidenza di linfoma è, purtroppo, in costante aumento in entrambi i sessi, ma la ricerca scientifica ha già dato risultati positivi dimostrati dalla riduzione della mortalità e dalle crescenti possibilità di cura.
Consapevolezza sul linfoma: unisciti a noi!
Puoi aderire anche tu all’iniziativa e aiutarci a diffondere maggiore consapevolezza
Consapevolezza sul linfoma: GRAZIE…
…a tutti coloro che contribuiscono ogni giorno a trasmettere maggiore consapevolezza su questa patologia (pazienti e organizzazioni di pazienti, sostenitori, ematologi ed oncologi, familiari e tutti coloro che assistono i pazienti con linfoma).
Ci sono ancora tanti traguardi da raggiungere e Linfovita sostiene la ricerca: INSIEME CONTRO LA MALATTIA.
Settembre è il mese interamente dedicato alla sensibilizzazione sul linfoma, e in particolare il 15 settembre l’intera comunità medico/scientifica celebra la giornata mondiale per la consapevolezza sul linfoma. È una iniziativa nata nel 2004 e promossa da Lymphoma Coalition (https://lymphomacoalition.org/world-lymphoma-awareness-day/), un’organizzazione senza scopo di lucro che oggi conta oltre 80 gruppi di pazienti in 50 Paesi del mondo. Tra questi anche l’Associazione LinfoVita Onlus. Nonostante il linfoma rappresenti la settima forma più comune di tumore, e la più diffusa malattia oncoematologia in Italia, spesso non si ha una adeguata conoscenza di cosa sia. Lo scopo dell’iniziativa è quindi quello di diffondere la conoscenza acquisita nell’ambito dei linfomi, sensibilizzare in merito al riconoscimento dei sintomi, all’importanza di una diagnosi precoce, ai diversi sottotipi esistenti e al loro trattamento, e sensibilizzare al valore della ricerca per raggiungere risultati sempre migliori.
Quest’anno in particolare la Giornata Mondiale della Consapevolezza sul Linfoma verterà sul tema “We Can’t Wait” ossia “Non possiamo aspettare” a porre fine alle conseguenze indesiderate che la pandemia ha avuto sul regolare iter diagnostico/terapeutico dei linfomi. In tutto il mondo, infatti, durante la pandemia, si è registrata una alterazione dell’erogazione dell'assistenza sanitaria; in particolare meno diagnosi e in una fase più avanzata della malattia, e ritardi nell’inizio dei trattamenti. Pertanto “Non possiamo aspettare” ad agire per colmare le lacune emerse durante la pandemia.
Se noti la persistenza di sintomi di linfoma (https://www.linfovita.it/collana/01.Generalita.pdf),
non tardare a parlarne con il tuo medico.
È giunto il momento di riprendere le pratiche standard di diagnosi e trattamento (https://www.linfovita.it/collana/01.Generalita.pdf) in sicurezza.
Se puoi, fai volontariato o sostieni l’Associazione LinfoVita o la tua organizzazione locale.
Puoi aderire anche tu all’iniziativa e aiutarci a diffondere maggiore consapevolezza
Il 15 settembre, inoltre, l’Associazione LinfoVita Onlus celebrerà la Giornata Mondiale per la Consapevolezza sul Linfoma con un incontro dedicato, i cui dettagli saranno resi disponibili a breve. Per rimanere aggiornato consulta il sito alla sezione Eventi https://www.linfovita.it/eventi.html.
Prima di parlare dello studio URBAN, bisogna fare una distinzione. I trial clinici sono degli studi clinici condotti in popolazioni relativamente ridotte di pazienti selezionati e in contesti protetti; pertanto, la trasferibilità dei risultati di questi studi alla popolazione trattata nella pratica clinica a volte risulta dubbia. Gli studi di “real life” riportano invece i dati già abitualmente raccolti come parte della pratica clinica e rappresentativi delle popolazioni reali e dell’assistenza effettivamente erogata; questi studi rappresentano quindi un passaggio importante per la convalida dei dati ottenuti dai trial clinici.
Il Professor Antonio Pinto, direttore del Dipartimento di Ematologia Oncologica e Trapianto dell’Istituto Nazionale Tumori, Fondazione Pascale IRCCS di Napoli, presenta alcune informazioni derivanti dallo studio URBAN. Lo studio URBAN rappresenta a livello mondiale il primo trial di “real life” volto a valutare l’efficacia e la sicurezza della combinazione obinutuzumab-chemioterapia nella routine clinica per il trattamento di prima linea del linfoma follicolare.
Lo studio URBAN è condotto in 46 centri sperimentali italiani, ed ha fino ad ora coinvolto 266 pazienti. I dati preliminari dello studio sembrerebbero confermare l’efficacia del trattamento con obinutuzumab, in termini di risposte complete alla terapia documentate mediante PET (circa l’84%).
Inoltre, dalle analisi preliminari condotte, continua il Professor Pinto, lo studio URBAN ha avuto come risultato inaspettato quello di mostrare quali sono stati gli atteggiamenti di molti ematologi d’Italia nella gestione dei pazienti con linfoma follicolare durante la pandemia da Covid-19. In particolare, gli effetti della pandemia sono stati principalmente due: 1) sono stati arruolati pazienti in fase più avanzata di malattia e con maggiori sintomi; 2) rispetto agli standard, è stata meno frequentemente utilizzata la combinazione di obinutuzumab e bendamustina. Il Professor Pinto spiega che entrambi questi aspetti hanno una motivazione. Nel primo caso si è cercato di spostare il più avanti possibile l’inizio dei trattamenti nella speranza di una riduzione del rischio legato alla pandemia; questo ritardo ha fatto sì che i pazienti arrivassero alla terapia in stadio più avanzato e con più sintomi. Nel secondo caso, si è cercato di evitare la bendamustina in quanto questo farmaco riduce in maniera consistente l’attività e il numero delle cellule T oltre che B.
Il professor Fabio Ciceri, Direttore Scientifico dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, riporta dal recente congresso della Società Americana di Oncologia Clinica (ASCO, American Society of Clinical Oncology) due nuove aree di sviluppo nel trattamento dei linfomi.
Dal 18 al 22 giugno 2021 si è svolta in modalità virtuale la sedicesima edizione del congresso internazionale sui linfomi maligni (https://www.icml.ch/icml/home.html), durante la quale sono stati presentati i risultati di importanti ricerche condotte non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Tra le ricerche presentate, una in particolare riguarda uno studio interamente italiano dal nome MIRO, condotto in pazienti con diagnosi di linfoma follicolare in stadio limitato. Il linfoma follicolare in stadio I o II è considerato una malattia localizzata che può essere adeguatamente trattata con la sola radioterapia e che nel 50% circa dei pazienti può essere addirittura guarito.
Lo studio MIRO è stato attivato con l’obiettivo di identificare precocemente i pazienti a rischio di recidiva dopo la sola radioterapia, e per i quali l’aggiunta dell’immunoterapia con ofatumumab (anticorpo monoclonale anti-CD20) potrebbe migliorare la sopravvivenza. Nello studio sono state utilizzate tecniche di biologia molecolare per misurare quantità minime di malattia residua monitorando la presenza della traslocazione BCL2/IGH che caratterizza il linfoma follicolare. La traslocazione è presente nella maggioranza dei pazienti alla diagnosi, prima dell’inizio della radioterapia e generalmente non è più rilevabile dopo una terapia efficace.
110 pazienti con diagnosi di linfoma follicolare in stadio I/II hanno preso parte a questo studio presso diversi centri di oncoematologia italiani. I campioni di sangue periferico e aspirato midollare dei pazienti sono stati inviati presso alcuni laboratori qualificati per la ricerca della traslocazione BCL2/IGH appartenenti alla rete della FIL MRD network. La persistenza della traslocazione dopo radioterapia è stata usata nello studio MIRO’ per identificare pazienti a rischio di recidiva da avviare a terapia con ofatumumab.
Nello specifico, la valutazione dei campioni al termine della radioterapia ha rilevato la persistenza della traslocazione nel 60% dei pazienti. Questi pazienti, o quelli che risultavano positivi alla traslocazione ad una delle successive visite, sono stati trattati con ofatumumab. L’immunoterapia è risultata essere efficace nel 92% dei pazienti, nei quali quindi la ricerca della traslocazione in seguito al trattamento con ofatumumab è risultata negativa.
I risultati dello studio dimostrano che nei pazienti in cui persiste la traslocazione BCL2/IGH, il consolidamento con immunoterapia dopo radioterapia permette un miglioramento della risposta. I dati più maturi dello studio verificheranno se il trattamento utilizzato sarà in grado di migliorare l’efficacia della cura.
Fonte: A. Pulsoni, 16-ICML, giugno 2021
Ad aprile 2021 sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of Clinical Oncology i risultati di uno studio clinico dal nome “Elderly Project”. Questa ricerca promossa dalla Fondazione Italiana Linfomi, è stata condotta in 36 centri di oncologia ed ematologia italiana e ha coinvolto più di 1300 pazienti con diagnosi di linfoma diffuso a grandi cellule B, di età uguale o superiore a 65 anni, e sottoposti al momento della diagnosi alla valutazione geriatrica.
La valutazione geriatrica è uno strumento utilizzato per definire lo stato di fragilità del paziente anziano.
Il modello maggiormente utilizzato è basato sulla compilazione da parte del paziente con l’aiuto del medico di alcuni questionari.
Tali questionari hanno lo scopo di valutare il grado di autonomia del paziente nello svolgimento delle attività di vita quotidiana (mangiare, vestirsi, lavarsi, gestire il denaro, gestire la casa, usare il telefono, etc) e la presenza di eventuali altre patologie (cardiache, diabete, etc).
Sulla base del risultato, viene calcolata la categoria di rischio a cui appartiene il paziente ossia FIT, UNFIT, e FRAGILE, e il trattamento viene deciso di conseguenza.
Ma la novità di questa ricerca è stata quella di incorporare la valutazione geriatrica appena descritta all’interno di un nuovo modello prognostico, il cosiddetto EPI (Elderly Prognostic Index) che comprende anche l’età del paziente, le caratteristiche del linfoma e il valore dell’emoglobina. In questo modo si identificano tre nuove categorie di rischio (basso, intermedio e alto), la cui prognosi/sopravvivenza è completamente diversa.
Tale sistema ha dimostrato che serve l’integrazione di tutti questi parametri per definire il trattamento migliore per il paziente. In altre parole, pazienti ultraottantenni in buone condizioni generali possono ricevere trattamenti simili a quelli dei pazienti più giovani con le dovute accortezze, portando ad un miglioramento della sopravvivenza di tale gruppo evitando tossicità inutili.
D’altra parte, l’EPI può aiutare anche nella scelta della terapia per quel gruppo di pazienti a più alto rischio, scelta che rappresenta spesso una sfida per un onco-ematologo.
Questo nuovo modello si basa su parametri semplici, che possono essere facilmente utilizzati dagli onco-ematologi per migliorare la valutazione iniziale del paziente anziano con diagnosi di linfoma diffuso a grandi cellule B, e di conseguenza per scegliere il trattamento più opportuno. Tuttavia, saranno necessari studi più ampi prima del suo utilizzo nella pratica clinica.
Fonte: Francesco Merli e Stefano Luminari, Journal of Clinical Oncology, aprile 2021
IL PRELIEVO VENOSO
Che cosa è
Il prelievo di sangue venoso è una procedura che consiste nell’acquisire un campione di sangue venoso, preferibilmente al mattino ed a digiuno in modo da ridurre la variabilità biologica.
Di solito si preleva sangue venoso dalle vene dell’avambraccio, viene effettuato dall’infermiere previa prescrizione medica e la quantità di sangue da prelevare varia in base agli esami ematochimici che si vogliono ottenere.
Indicazioni
Lo scopo del prelievo venoso è quello di indagare sullo stato di salute del paziente.
Il campione (o i campioni) viene inviato poi in laboratorio analisi per valutarne la composizione e i fattori che indicano problemi, patologie oppure anche per un semplice controllo post-terapia ed il cui esito poi sarà visionato nel complesso dal medico che ha prescritto gli esami.
Cosa si usa
Per la venipuntura è preferibile usare aghi di calibro pari a 20 o 21G “gauge”, riservando l'utilizzo di aghi di calibro inferiore a prelievi su vene piccole o particolarmente fragili. L’utilizzo di un ago di diametro inferiore a 23 (G), può indurre emolisi e modeste variazioni di alcune analisi comuni.
L’infermiere per fare il prelievo usa aghi dedicati, anche disponibili con dispositivo di protezione integrato e l’adattatore luer che garantiscono la sicurezza della procedura.
Complicanze del prelievo venoso
Controindicazioni
Scritto da Carmelo Leuzzo – Infermiere Divisione di Ematologia “Grande Ospedale Metropolitano” di Reggio Calabria
Altri articoli di CARMELO LEUZZO:
https://www.linfovita.it/component/k2/item/426-catetere-venoso-centrale-picc.html
ESSERE DATA MANAGER OLTRE I DATI
Ricordo ancora il lontano gennaio 2009, epoca in cui venivo a contatto con un mondo per me nuovo ma che ho sempre sognato di vivere… l’ospedale!!! Era un sogno realizzato quello di indossare il camice bianco ma non potevo lontanamente immaginare cosa avrebbe significato per me non “lavorare come” ma “essere” una Data Manager. Son trascorsi 10 anni da quando incontrai per la prima volta, con tanta timidezza, la Dr.ssa Stelitano che contribuì a farmi conoscere, a studiare quello che per tanti è considerato un nemico da sconfiggere immediatamente con accanimento, per altri è un’occasione di lotta, altri lo considerano quasi un compagno di strada.
Si, cari lettori, mi riferisco proprio al Linfoma.
Questo è stato l’inizio di un percorso professionale che, tra alti e bassi, mi ha fatta crescere sia culturalmente che umanamente.
Senza ombra di dubbio, i protocolli sono stati i miei compagni in questo percorso ma tutto vissuto come servizio nell’intento di favorire la ricerca seminando speranza in tanti cuori sofferenti. Ma quando scopri che hai anche l’opportunità di entrare a contatto, di vedere con i tuoi occhi il mondo della sofferenza, capisci che hai ricevuto un grande privilegio.
Si, perché per me essere Data Manager non è aggiornare sistemi informatici, fare contabilità o altro ma riuscire a penetrare i dati apparentemente numerici comprendendo che nascondono le storie di tanti fratelli che si sono ritrovati, non per scelta, protagonisti di una battaglia davvero importante, la lotta per la vita.
Alla luce di ciò vedo il Linfoma, forse andando controcorrente, come un’occasione di vita, oserei dire di amore alla vita.
a cura della Dott.ssa Elisa Montechiarello
U.O. Ematologia
Gammopatie monoclonali MGUS
La Gammopatia Monoclonale (MGUS) è un disordine linfoproliferativo caratterizzato dalla proliferazione di un clone plasmacellulare con secrezione nel plasma di componente M. E’ una condizione patologica asintomatica e non richiede alcun trattamento.
Si riscontra prevalentemente nell’adulto con una prevalenza del sesso maschile. L’incidenza aumenta con l’età. I dati attuali indicano una incidenza di circa il 5% della popolazione.
La progressione della malattia verso altre patologie è di circa 1% per anno. Ciò è correlato dalle caratteristiche biologico-molecolari che stratificano i pazienti in diverse fasce di rischio.
Si distinguono in base alle immunoglobuline coinvolte I seguenti tipi di MGUS con una diversa prevalenza:
Oltre le MGUS altre condizioni patologiche presentano una CM:
Diagnostica delle MGUS
Esami da eseguire:
Per la diagnosi di MGUS sono necessari tutti i seguenti criteri:
Il rischio di trasformazione è del 1% ed è diverso a seconda del tipo di CM. Per esempio le MGUS IgG ed IgA evolvono verso un Mieloma, le MGUS IgM verso un Linfoma Linfoplasmocitico e le forme a catene leggere verso un Mieloma micromolecolare.
Le forme con maggiore evolutività sono le MGUS non IgM ed in particolare le forme IgA.
Esiste comunque oggi la possibilità di stratificare i pazienti in diverse fasce di rischio con i seguenti parametri:
I pazienti con MGUS non necessitano di alcuna terapia specifica per cui dopo la diagnosi e completamento delle indagini di stadiazione rientrano in un programma di follow-up. Infatti rimangono patologie che devono essere semplicemente osservate per vedere il momento in cui questi pazienti progrediscono e quindi necessitano di trattamento.
Ulteriori studi di tipo biologico-molecolare sono necessari per meglio conoscere aspetti genetici di queste patologie e consentire di individuare eventuali pazienti a maggior rischio che potranno avvantaggiarsi di un trattamento più precoce e prevenire la loro trasformazione.
Dott.ssa Caterina Stelitano